13/06/2018. Charley Thompson, un film di amicizia e sofferenza tra un cavallo e un ragazzo // Un film bellissimo, coinvolgente

 

La locandina del Film
La locandina del Film

 

“Dammi retta, non ti affezionare mai a un cavallo. I cavalli, quando non possono più correre, non valgono un cazzo per nessuno”. Questa battuta,  che usa un linguaggio fuor di metafora,  illustra la crudele regola di vita che presiede   al mondo delle corse  dei piccoli circuiti statunitensi ( ma questa realtà  riguarda tutto il mondo). Ed è la raccomandazione  che una fantina ripete maternamente  all’artiere Charley Thompson, quindicenne senza famiglia che si è affezionato a un quarter horse di cinque anni, sbattuto a  gareggiare nelle corse  sui centocinquanta metri: si parte, si brucia gli altri sullo spunto e un istante dopo si arriva. E se in quella corsa così “strappata” un cavallo si fa male,  viene venduto a un trasportatore che va in Messico, dove verrà macellato. 
Questo è il nocciolo duro e incandescente di un film dal  5 aprile sugli schermi italiani con il titolo Charley Thompson. Presentato all’ultimo festival di Venezia, diretto da un regista di qualità come Andrew Haig ( per i cinefili più appassionati: è il regista di Week end e di 45 anni, che  valse a Charlotte Rampling l’Orso d’argento e Berlino e la candidatura all’Oscar) Charley Thompson  è tratto da un romanzo di Willy Vlautin, edito in Italia da Mondadori  con il titolo La ballata di Charley Thompson,  in cui si narra la determinata e silenziosa affezione del giovane artiere al cavallo di cui deve occuparsi e la sua decisione di sottrarlo al destino che lo aspetta.  
Charley è un ragazzo senza madre e con un padre eternamente nei guai. Il cavallo a cui il giovane si affeziona è un sauro di nome Lean on Pete ( che significa,  non a caso “appoggiati a Pete”) nascostamente stimolato alla partenza  di ogni corsa con un aggeggio elettrico, perché abbia più possibilità di guadagnarsi la vittoria.  A Charley il compito di far calmare la povera bestia dopo la corsa facendolo passeggiare, prima di caricarlo sul van e di guidare fino alla malconcia scuderia e alla prossima corsa. Uno dei punti di forza di questo film pacato ma durissimo  sta nel  raccontare – con uno stile composto e proprio per questo  molto efficace -  il modo di considerare i cavalli niente più che degli oggetti. 
Chi non riesce e non vuole  adattarsi a questa idea è Charley che, per sottrarre  il sauro alla sua fine già segnata, lo ruba. Non lo ha mai montato, non vuole montarlo, vuole solo conservargli la vita e preservare l’unico rapporto affettivo, emotivo, appagante che gli è rimasto. Charley ha una zia, che non vede da quattro anni, e che vorrebbe raggiungere: un porto in cui spera di trovare rifugio e conforto per lui e per Pete.
Nell’America profonda, di grandi spazi e di incontri difficili con persone segnate dall’esistenza, si dipana la difficile odissea di un ragazzo squattrinato e di un cavallo malconcio, in cui uno è consolazione dell’altro. Siamo dalle parti di Steinbeck, e della sua prosa secca e dolente, che l’autore mette in esergo al romanzo, citando qualche riga tratta da La valle dell’Eden: “E’ vero che noi siamo deboli e malati e litigiosi, ma se non fossimo altro che questo saremmo già spariti da qualche migliaio di anni dalla faccia della terra”. 
Il tema del cavallo salvatore, del cavallo che ripara le ferite emotive degli esseri umani è presente nella narrativa contemporanea; basta pensare al romanzo di Laurent Mauvigner,  appena uscito in Italia per i tipi della Feltrinelli, con il titolo Continuare, in cui si racconta un’altra odissea: quella di una  frustrata dottoressa ospedaliera francese,  Sybille, che per salvare suo figlio sedicenne da una deriva emotiva che lo porterà fatalmente alla delinquenza, lo trascina con lei in un lungo viaggio a cavallo sulle montagne del Kirghizistan. Una donna, un ragazzo e due cavalli alle prese con una sterminata prateria che li rimetterà di fronte a loro stessi. E li aiuterà a comprendersi e a salvarsi dalla fatica di vivere.
Tornando al film Charley Thompson,  non si può non sottolineare la bravura del sedicenne protagonista Charlie Plummer ( che al festival di Venezia ha vinto il premio Mastroianni riservato agli attori emergenti, e che abbiamo già rivisto sugli schermi nel ruolo del giovane  sequestrato Paul Getty nel film di Ridley Scott  Tutti i soldi del mondo) e del bravissimo Steve Buscemi, il malconcio e crudele allenatore, che bofonchia: “anche io da ragazzo amavo i cavalli. Ma  nel mondo  delle corse  è un lusso che non mi posso permettere”.
Per concludere: un film davvero bello nella sua durezza, che ci  rimanda alla memoria di altre  letture, come per esempio La carriera di Pimlico, del grande Manlio Cancogni, altra indagine sulla crudele, metaforica realtà che presiede ad ogni gara. Per consolarci possiamo però citare i ringraziamenti che Willy Vlautin fa in apertura al suo romanzo: “al vero Lean on Pete e al suo proprietario, David Fuke: nessuno dei due assomiglia in alcun modo ai personaggi di questa storia. Lean on Pete ha avuto una luminosa carriera da purosangue e David Duke è un apprezzato addestratore dell’Oregon che tratta i suoi cavalli con rispetto e gentilezza”. Consoliamoci così. Restando testardamente convinti che la buona  sorte di uno debba diventare la  buona sorte di tutti.